Partiamo da un dato: senza i collaboratori di giustizia non sapremmo tutto quello che oggi sappiamo sulle mafie. Non sapremmo i rapporti al loro interno, i riti, i misteri e le verità. Probabilmente dubiteremmo ancora dell’esistenza della mafia. Eppure, questi, nascono col nascere delle mafie nonostante solo con Falcone diventino uno “strumento” fondamentale nelle mani della giustizia. Sicuramente hanno avuto un ruolo di primaria importanza nella lotta al terrorismo, ma quella, come ben sappiamo, è un'altra storia.
Il primo pentito di mafia
nella storia d’Italia «si chiamava Salvatore D’Amico. A metà dell’Ottocento
faceva parte della fratellanza degli stuppagghieri
di Monreale. Si trasferì a Bagheria, la cui cosca, detta dei fratuzzi, era in guerra con quella
monrealese. Iniziò a temere per la sua vita e decise di dire quello che sapeva
sulla mafia ai giudici: “undici giorni dopo il D’Amico veniva trovato
crivellato da lupara, con un tappo di sughero in bocca (u stuppagghiu) e con sugli occhi il santino di stoffa della Madonna
del Carmine che i fratuzzi portavano
al collo a mo’ di amuleto e di riconoscimento. La mafia aveva ritrovato l’unità
per punire il traditore, anche se le due cosche continuarono per altri anni a
distruggersi a vicenda”».[1]
Melchiorre Allegra, medico trapanese “pentito” nel 1937, era «affiliato alla famiglia mafiosa
palermitana di Pagliarelli, aveva raccontato, agli ufficiali di polizia che lo
avevano arrestato, la struttura di Cosa Nostra, il rito della “punciuta”, i
nomi delle famiglie più importanti e i legami con la politica, la sanità e gli
affari».[2]
Erano gli anni ’30. Altri tempi. Tra D’Amico e Allegra intercorrono storie di
pentitismi, collaborazioni e confidenze. Nei verbali venivano chiamati
“dichiaranti” ma le scarse norme legislative sul tema e le diverse condizioni
storiche del tempo hanno lasciato poche tracce delle testimonianze di questi
personaggi. Difatti le notizie sono scarse sulla storia del pentitismo prima di
Leonardo Vitale. Un “pentito” vero, quest’ultimo. Rese dichiarazioni spontanee
dopo una lunga e travagliata riflessione, cercava un ravvedimento, voleva
rimediare per il male fatto così come insegna il catechismo della Chiesa
Cattolica. I collaboratori da ricordare, per importanza e verità, non sarebbero
pochi. Ci sarebbe da raccontare anche di quei “falsi pentiti”, orchestrati a
dovere per confondere le carte in gioco e creare sfiducia in questo strumento. Collaboratore
però, non è sinonimo di “pentito”. Ognuno di loro è mosso da un motivo diverso
che li porta a collaborare con la giustizia. I soldi, la protezione, o forse un
riscatto per il male fatto. Spesso considerati dei delatori, che poi è il
peccato di Giuda (e il paragone, non mio, è tristemente infelice), sono da
sempre osteggiati e criticati dalla pubblica opinione e da molti addetti ai
lavori. Eppure costituiscono un pilastro fondamentale della lotta alla mafia. In
questo paese, e non solo. Forse basterebbe proteggerli maggiormente,
seriamente, in base alla storia e alle verità riscontrate e non trattarli tutti
allo stesso modo. Del resto, da D’Amico, a Buscetta, fino ad arrivare a Iovine,
è cambiata la mafia, non il modo di trattare e “usare” i collaboratori di
giustizia. Almeno fin quando questi, si limitano a portare verità che non fanno
male a molti.
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